Autore: Rochette & Legrand
Titolo: Requiem Bianca
Editore: Cosmo Editore
Pagine: 112 a colori
Formato: 24 x 32 cm, cartonato
Rochette è ormai un autore che apprezzo sempre di più e nonostante il successo planetario che hanno avuto le trasposizioni, cinematografica e televisiva, di Le Transperceneige, alias Snowpiercer, resta un eclatante sconosciuto ma senza divergere in politiche di marketing che non mi interessano, così come non mi interessa fare un'agiografia sull'autore, vorrei sottolineare quanto sia espressivo il suo segno in quella che reputo la sua opera più affascinante. Partiamo innanzitutto col descrivere di cosa parla Requiem Bianca, in modo da capire poi come faccia Rochette a potenziarla.
Senza tanti giri di parole, Requiem Bianca si inserisce nel solco della fantascienza dell'anticipazione speculativa. L'anticipazione è un sottogenere della fantascienza che non riguarda tanto gli sviluppi tecnici quanto l'evoluzione geopolitica della Terra. Legrand immagina che la supremazia della "razza bianca" non sia altro che un miraggio. Usa la tecnica del ribaltamento per parlare del problema dell'oggetto ribaltato, come una sorta di ucronia. Dunque abbiamo Europa e Stati Uniti cadaverici, mentre l'Africa si distingue come la regione leader in termini di sviluppo economico e sociale. Questo comporta ovviamente un'ondata senza precedenti di immigrazione di bianchi desiderosi di tentare la fortuna in questo continente in piena espansione. Questo passaggio di potere non è privo di scontri e ci sono ancora i nostalgici della supremazia bianca pronti a tutto pur di riprendere la direzione del mondo.Legrand basa la sua narrazione sui dialoghi, il protagonista usa la sua professione di giornalista come copertura e porta avanti le interviste alle figure chiave di questa società in rapido mutamento. Lascia così al lettore l'opportunità di districare la matassa di alleanze, tradimenti, ecc. Attraverso questa metafora sui capovolgimenti storici, dipinge un ritratto molto oscuro dell'umanità di allora come di oggi.
Legrand è uno scrittore poliedrico e ha scritto anche sceneggiature per fumetti, infatti poco prima di questo lavoro aveva firmato
una grande opera insieme a Tardi: Ammazzascarafaggi. In Requiem Bianca, come per il precedente lavoro con Tardi, mette su carta una delle poche opere
fumettistiche "glaciali". Un fumetto depersonalizzante, freddo, distaccato, in grado di trasmettere oppressione e isolamento, malinconia e angoscia. Questo in fin dei conti è il tema del post.
Nei film era una tendenza, termine forse un po'
negativo ma ad oggi mi sento di accettarlo perché difatti non lo è più,
iniziata da Antonioni e portata avanti da molti altri considerati, anche
da me, tra i massimi registi. Non era una tendenza solo di un certo
tipo di cinema, chiamiamolo slow come si fa oggi, ma si estendeva anche ai film più
costosi, americani ovviamente.
E nei fumetti? Bilal per me è il primo che ha mostrato che era possibile ricreare
un'atmosfera pesante e opprimente su carta senza ricorrere ad artifici underground e anti-narrativi o, più semplicemente, diciamo utilizzando il realismo. Mattotti è molto vicino a questo concetto ma tra surreale, onirico e metafisico non posso certamente ritenerlo realistico. Alberto Breccia pure si è prodigato nel trasmettere un mood particolarmente denso, anche prima di Bilal, ma l'aveva fatto nella forma breve e ciò già necessita di un ritmo diverso, oltre a puntare sull'astratto (I Miti di Cthulhu) e troppo sul grottesco e questi aspetti lo rendono a sua volta unico; difatti non accosterei Breccia a quel mood che si evince da Bilal, Rochette, dai film e altri citati. Tanto per fare un altro esempio valido nel fumetto direi Cara Patagonia di Jorge Gonzalez. Se ne potrebbero fare altri, ma per me sono veramente pochi. Parliamoci chiaro, esistono molti fumetti che parlano di isolamento, ecc., e il loro scopo è quello di trasmettere queste sensazioni ma a che punto arrivano? Quanto riescono a risuonare nel lettore?
Non ci sono solo il cinema e il fumetto ad aver esplorato quei temi, basti pensare ad Hopper o a De Chirico, a Ballard, 1984, Dick, ecc., ma l'affinità tra i 2 mezzi c'è. In effetti il colmo sarebbe che il cinema cerchi la
staticità e il fumetto il movimento. Il secondo caso è molto più vero
del primo però. Non che manchino fumetti statici, soprattutto al giorno
d'oggi, con la tendenza dei graphic novel ad avere un segno "brutto" e
assolutamente poco dinamico. Tuttavia non è presente quella qualità di
cui parlo: la densità di ogni vignetta, la dilatazione temporale data
dal segno. Non parlo ovviamente di contemplazione, anche perché il
fumetto non sarà mai contemplativo o è sicuramente una contemplazione
diversa da quella cinematografica perché il mezzo è diverso. Come potrebbe il fumetto replicare un fermo immagine di 5 o 10 minuti? Utilizzo la stessa splash per centinaia di pagine? Funziona? No. Non esiste solo il fermo immagine, potrei contemplare utilizzando vignette sulla natura ma, nuovamente, quante ne servono? Inoltre, mi pare che venga meno proprio il principio cardine della contemplazione: il dilatamento temporale. Sappiamo bene che una sequela di immagini mute sulla natura la leggiamo più velocemente rispetto ad una classica con i dialoghi. Anche nel caso dei fumetti muti però ci sono delle differenze: Arzach lo leggi più lentamente di Match di Panaccione. Infatti è assodato che il tempo non è dato solo dai dialoghi. Si aggiunge un altro limite: il dover girare le pagine. Una differenza sostanziale tra cinema e fumetto è che il primo lo subisci inerte, mentre il secondo richiede una partecipazione attiva. Ergo, il fatto stesso di girare una pagina ti distrae momentaneamente dalla contemplazione.
Certamente la dilatazione temporale data dalle immagini è più evidente nel cinema perché lì parliamo esclusivamente di tempo percepito, mentre la durata effettiva è immutata. Ciò però non significa che si possa fare solo con scene mute, in cui i personaggi vagano nel vuoto o ci si sofferma sulla natura. Basti pensare a Wenders, e le opere di Bilal sono affini per l'atmosfera. Requiem Bianca in realtà è molto vicino a un altro fumetto di Bilal,
fatto con Christin, ovvero quel capolavoro di Battuta di Caccia, per la parte
politica e la suddetta densità grafica straniante. Difatti alle scene pregne e dialogate di
Legrand, Rochette cerca di dargli una staticità glaciale come supporto.
Era una sfida per lui poiché allora aveva una concezione più dinamica
(almeno come dice lui, ma Snowpiercer non era mica dinamico) e non aveva
ancora capito quanto potesse essere potente ed espressionista il suo
segno. Fortunatamente riprende quest'opera quasi 30 anni dopo e la colora. Anche questo potrebbe essere un oggetto di discussione - ma il tempo è tiranno - perché è una
delle rare volte in cui questa operazione migliora l'effetto originario. Stesso lui spiega come il contrasto tra segno preciso, dubbioso, e la
colorazione gestuale, senza ripensamenti, crei un effetto fortemente
espressionista che amplifica il mood. Inizialmente il suo segno e il grigiore retinato erano comunque già in
linea con la sceneggiatura di Legrand ma ora l'effetto complessivo è totalizzante.
In
particolare Legrand scrive dei dialoghi affilatissimi e aforistici ma
utilizza anche una narrazione spezzettata, del resto la storia è scandita dai giorni della settimana e, mi sembra strano che non
l'abbia capito, ma è proprio questo il motivo dello scarso successo
commerciale...
Al di là del colore e del segno, come riesce Rochette ad amplificare quelle emozioni? Con la composizione. Innanzitutto utilizza spesso lunghe e strette vignette orizzontali e questo lo avvicina certamente di più al cinema. Il fumetto franco-belga è già di per se orizzontale, contrapposto alla verticalità di quello americano, e ha una progressione molto scandita e immersiva sin dai tempi di Tintin, amplificata poi in Blake & Mortimer ma loro non avevano queste vignette lunghe e strette che comprimono i personaggi. Oltre a questo però è fondamentale la composizione interna. nello specifico, una tecnica facilmente implementabile al cinema è il posizionamento dei personaggi nel quadrante basso, destro o sinistro. Se utilizzi vignette strette però sei limitato nel posizionamento del quadrante inferiore ma puoi sempre usare l'estremo della vignetta, mentre il cinema tipicamente non cambia formato durante la visione. Il cinema mainstream si basa sul cosiddetto "rule of thirds", regole auree sul piacere e comfort visivo ma, come dicevo, da Antonioni in poi lo spazio ha avuto un ruolo. La composizione del quadrante basso invece trasmette disagio per via del differente legame tra il soggetto e lo spazio circostante, tra lo spazio positivo e negativo. In particolare, aumentando lo spazio negativo si crea questa rottura, un allontamento, un senso di isolamento e chiusura. Il personaggio viene oppresso dal considerevole spazio circostante, che quindi gli ruba la scena e lo spettatore avverte la forza d'attrazione che spinge lo sguardo nel verso opposto alla posizione del personaggio.
Spesso nelle vignette di Rochette c'è una dissonanza visiva dovuta al fatto che i personaggi vengono fatti sentire insignificanti e oppressi dai massicci sistemi della società che li circondano e li dominano. Spesso sembra che il protagonista (ma anche gli altri personaggi) venga costretto a uscire completamente dall'inquadratura. Questa tensione visiva tra lo spazio negativo e i personaggi amplifica il tema dell'isolamento. Come abbiamo detto i personaggi sono spesso relegati ai margini della vignetta ma l'isolamento può essere ulteriormente aumentato giocando con la direzione dello sguardo del personaggio. Si pensi al profilo perso nel vuoto della ragazza alla finestra del Morning Sun di Edward Hopper e a quante volte Rochette utilizza personaggi disposti di profilo all'estremo della vignetta. Non solo, tipicamente li mette in mezzo busto o quasi primo piano, schiacciandoli ancora di più. In realtà ciò può anche dare un significato diverso, a seconda della scena, e per esempio creando il cosiddetto "headspace" in cui si amplifica il fatto che il personaggio sta pensando, che a sua volta è amplificato dalle didascalie pensiero/reportage del protagonista.
In teoria non è neanche difficile farlo ma all'atto pratico tutto si traduce in creatività ed equilibrio. Non credo sia necessario tracciare linee, come fanno alcuni per cinema e pochi altri per le tavole dei fumetti, per mettere in evidenza quanto detto quando sfogliando l'albo questo aspetto risulta lampante, secondo me. Del resto si può notare anche dalle tavole qui presenti.
Avevo già parlato della spazialità ne Il Quaderno Blu di Juillard e se ne potrebbe parlare a lungo ma questi vogliono essere solo dei "pensieri sparsi" su una caratteristica di cui io, francamente, non ho mai letto nulla a riguardo nel campo fumettistico, fatta eccezione per il blog di Daniele Barbieri che presentava svariate analisi sulla tavola. Credo che, in definitiva, le analisi critiche siano praticamente assenti in lidi online e non sono certamente maggiori su riviste cartacee o nei saggi. Suona come una sorta di appello ma chi fa questo per mestiere (chi scrive per riviste o pubblica libri) dovrebbe tentare un approccio più critico, mentre invece abbondano le recensioni, che sono appunto analisi di appassionati strutturate diversamente dalla critica costruttiva. Da semplice appassionato sono convinto che la crescita del mezzo debba per forza essere alimentata dalla critica. Bisogna che si dimostri cosa può fare il fumetto come linguaggio per crescere nell'immaginario collettivo e per spronare gli autori, che si vedono il lavoro riconosciuto. Tuttavia nel nostro Paese siamo ben lontani dal farlo, visto che anche i critici danno troppa poca importanza agli aspetti visivi e compositivi, sminuendoli in poche battute descrittive, mentre si pone l'enfasi sull'analisi dei significati.
Ritornando a Requiem Bianca devo dire che la fantapolitica e la claustrofobia mi riportano alla mente i fumetti di
Chantal Montellier, citata anche da Rochette nella postfazione, e anche il recente adattamento di 1984 fatto da Xavier Coste. Non saprei bene come valutarlo, dicevo che Rochette mi piace molto e sarei tentato di dire che questa è la sua opera migliore. Forse non è così, non dico neanche che sia perfetta ma questo non è importante. Del resto credo che i difetti di questo fumetto passato in sordina (un eufemismo) siano pochi e piccoli. Un altro mio cruccio è che pur essendo dell'87 è stato comunque rimodernato per via del colore. Quindi devo contestualizzarlo? O magari devo contestualizzarlo fino ad un certo punto, escludendo appunto il colore? Dubbi che però cadono quando
penso che roba del genere si vede raramente. Sarebbe anzi interessante
vedere più spesso fumetti che hanno la stessa lunghezza d'onda, validi ovviamente. D'altro canto se una vignetta della trilogia di Animal'z di
Bilal mi riempie più di un intero graphic novel moderno (per esempio Nessun Altro di Kikuo Johnson e parliamo di uno abilissimo nello storytelling), c'è da
chiedersi se la strada intrapresa da una metà dei graphic novel moderni, quelli che ti scivolano addosso,
non sia errata. Parere personale.
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